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Quando nel 472 a.C. ad Atene va in scena la tragedia più antica del mondo, I Persiani di Eschilo, sono passati appena otto anni dalla guerra combattuta dagli Ateniesi contro l’esercito di Serse che ha invaso l’Attica e distrutto la città.
Alla fine, gli Ateniesi avevano annientato l’aggressore nella battaglia navale di Salamina, ma le ferite di quell’attacco recente erano ancora aperte e ben visibili a tutti.
Eschilo – che secondo i racconti antichi aveva combattuto a Salamina – abbandona ogni trionfalismo e ambienta la vicenda a Susa, la capitale persiana.
Gli anziani cittadini rimasti e la madre del re sono in preda all’angoscia perché l’esercito è ancora lontano in guerra e non se ne sa niente.
E quando finalmente, dopo l’arrivo della notizia della catastrofe che ha travolto i Persiani, compare in scena Serse, il Gran Re, di ritorno a Susa dalla disastrosa spedizione in Grecia, Eschilo lo presenta agli Ateniesi come un reduce miserevole, degno di pietà.
Per un’epoca come la nostra, che ci vede così poco capaci di mettersi nei panni altrui, questo cambio di prospettiva è a dir poco sorprendente.
Silvio Castiglioni e I Sacchi di Sabbia ambientano la tragedia più antica del mondo in un rarefatto “teatro di oggetti”, che sembra uscito dalle tele di De Chirico.
I versi di Eschilo, tradotti da Francesco Morosi, si posano su volumi metafisici, mute pedine mosse dall’attore su un tavolo-palcoscenico, unico elemento scenografico.
Ne nasce una miniatura, che ci restituisce un Eschilo in purezza in cui riecheggiano più forte che mai i suoi antichi inviti: primo tra tutti considerare l’altro, anche quando è il nemico, come una parte di noi stessi.
Dalle 20.00 alle 23.00 circa
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